Le leggende dell’Equinozio d’Autunno

<SE san Michele si bagna le ali piove fino a Natale se san Michele non bagna le ali farà bello fino a Natale>.

San Michele

San Michele arcangelo, è il patrono dell’equinozio d’autunno e, secondo questo detto popolare, è il responsabile dei fenomeni metereologici fino alle feste natalizie, stabilendo a seconda delle temperature registrate nel giorno a lui consacrato una invernata mite o severa.

Nel corso dell’anno la terra percorre un’orbita ellittica intorno al sole, per cui in certi periodi è più vicina e in altri è più lontana da questa stella. Durante gli equinozi il giorno ha la stessa durata della notte; successivamente a quello d’autunno, che cade il 21 settembre, le durate si invertono fino a raggiungere il 22 dicembre, solstizio d’inverno, cioè la data dell’anno nel quale il giorno dura meno ore in assoluto e nella calotta polare artica, a causa dell’inclinazione terrestre, regnerà la grande notte e in quella antartica il grande giorno.

In epoca ellenistica l’equinozio d’autunno era consacrato a “Kosmokerator”, signore e animatore del cosmo, caratteristiche che in epoca cristiana saranno per l’appunto ereditate dall’alato san Michele.

Percorrendo la fascia zodiacale il sole, attraversando ogni anno i quattro punti chiamati equinozi e solstizi scandisce le quattro feste cardinali: Natale, Pasqua, San Giovanni e San Michele.

L’equinozio d’autunno è stato protagonista di diverse culture religiose, ad esempio per i Celti l’anno nuovo iniziava con la luna crescente successiva all’equinozio d’autunno, esso consisteva di 13 mesi, 12 identici ai nostri mentre il tredicesimo, che cadeva alla fine di ottobre, era costituito di tre giorni, periodo di passaggio che collegava l’anno vecchio con il nuovo.

Quercia sacra autunnale

Ogni mese era governato da una luna e possedeva un albero sacro associato ad esso. Quello di settembre era la quercia.

Nella notte magica del 21 settembre gli antichi druidi, armati di un falcetto d’oro, si recavano nelle selve sacre di querce secolari per raccogliere dei rami di una pianta che <dalla folgore pareva generata: il vischio>.

Nella simbologia celtica l’albero rappresentava la via che univa quanto vi era in alto con quanto vi era in basso, mentre il vischio, che non affonda mai le sue radici in terra, era il simbolo della luce divina che discendeva in quella ricorrenza.

I nomi gaelici delle quattro stagioni risalgono ad epoche pre-cristiane: “Errach” indicava la primavera, “Samhradh” indicava l’estate, “Foghara” veniva usato per l’autunno e infine “Geamhradh” indicava l’inverno. Il calendario liturgico celtico prevedeva quattro feste del fuoco, che segnalavano il cambio di stagione. Quelle per l’inizio dell’estate e dell’inverno erano considerate festività maschili mentre quelle di primavera e autunno erano reputate fiamme femminili.

Anche nei circoli druidici l’equinozio d’autunno, chiamato “Alban Elued”, cioè “Luce dell’acqua” aveva una simbologia particolare.

Nel mondo ellenistico, in questo periodo si celebravano i riti misterici, tra i quali quelli di Mithra, signore del cosmo e portatore di luce. Nelle allegorie classiche Mithra era spesso raffigurato tra due portatori di fiaccola, Cautes con la torcia sollevata in alto a rappresentare l’equinozio di primavera e Cautopates, con la torcia abbassata a simboleggiare l’equinozio d’autunno.

Il mese di settembre, nel cosmo antico, era anche quello in cui si celebravano i Grandi misteri di Eleusi. I rituali eleusini si basavano sulla simbologia del grano e celebravano i miti di Demetra e Persefone.

Misteri Eleusini

Essi narrano come Persefone venne rapita da Ade, dio degli inferi perdutamente innamorato di lei, e di come sua madre Demetra, dea del grano e delle messi coltivate, la cercò in ogni luogo fin quando disperata si rifiutòdi far fruttificare la terra. Il suolo divenne arido e gli uomini chiesero aiuto agli dei. Demetra, stremata, si sedette per nove giorni e le altre divinità le fecero crescere intorno un campo di papaveri. Ella respirando il profumo dei fiori si addormentò e gli dei riuscirono ad ottenere da Ade il ritorno di Persefone, ma siccome nella sua permanenza nell’aldilà ella aveva mangiato tre semi di melograno, fu destinata a trascorrere ogni anno tre mesi negli inferi. E’ in quei mesi che sulla terra si abbatte l’inverno.

Il tema stagionale dell’equinozio è il raccolto; cibo e simboli di quello autunnale sono il vino, le pigne, le mele, le foglie, le patate, le noci, la verdura, il pane e l’idromele. Il colori sono il rosso, l’arancione, il marrone e l’oro.

Alla corte dei reali europei, foglie di patate in insalata…

patateLa “solanum tuberosum”, donata dalla dea Axomana agli Incas 2 mila anni fa, protesse con rapida crescita e semplice coltura le popolazioni europee dalle secolari carestie, divenendo cibo essenziale per i contadini di tutto il mondo.

Cibo divino e antichità profumata di leggenda per identificare un nutrimento basilare a tutte le tradizioni alimentari europee, comunemente conosciuta col nome di … patata.

In Colombia, Bolivia e Perù rappresentava, per gli abitanti degli altopiani, dove cresceva spontanea, una vitale vivanda.

Gli indigeni adottavano specifiche tecniche di conservazione, tra cui stendere i tuberi su letti di fogliame, per farli gelare di notte e poi, durante il giorno, far evaporare ai raggi del sole l’acqua che le donne ne ricavavano pestandoli. La procedura, resa possibile dall’umidità specifica di quelle altitudini, costante nel suo grado, era ripetuta per cinque giorni.

Le patate, una volta essiccate, erano conservate in magazzini con circolazione d’aria e, con i dovuti accorgimenti si mantenevano anche per 10 anni.

L’alimento era consumato in consistenza di farina, celebre “Chunu”, impiegato per zuppe condite con carne di lama e legumi.

L’approdo in Europa del tubero, importato dagli spagnoli dopo la conquista del Perù, è cinto di un alone di mistero. La prima varietà fu importa quale curiosità botanica, omaggio al re di Spagna, dallo spietato conquistador di terra peruviana Francisco Pizarro  nel 1524.

Alla pianta, negli iniziali decenni della sua diffusione, fu riservato un interesse prettamente scientifico e la sua prima descrizione completa, per opera del botanico inglese John Gerard è datata 1597.

Ad avvalorare tale tesi sono citate fonti che la indicano come rarità esotica coltivata negli orti dei più famosi erboristi o come pianta d’appartamento in alcune case signorili, apprezzata per gli splendidi fiori.

maiaFurono molte invece le resistenze che si dovettero superare prima di impiegarle nell’alimentazione giacché le patate erano ritenute portatrici di terribili malattie: lebbra, tubercolosi, affezioni ghiandolari, febbri e quant’altro esistesse di terribile.

I più coraggiosi non sapevano bene come cucinarle e le consumavano erroneamente: taluni bollendole e poi mangiandole con la buccia, altri friggendole, sempre con la buccia, e poi inzuppandole nel vino.

In Europa, l’Irlanda fu tra i primi paesi ad impiegare la patata come nutrimento per quegli uomini che stavano letteralmente morendo di fame, mentre negli altri Stati era usata quale cibo per animali d’allevamento.

Vita più complessa ebbe il tubero in Inghilterra, Germania, Francia ed Italia.

Esso toccò per la prima volta il suolo inglese nel 1585, grazie al pirata gentiluomo Sir Francis Drake, navigatore alle dipendenze di sua maestà Elisabetta I che, tornando da una missione, le fece dono della prelibatezza culinaria.

Ma Drake dimenticò di suggerire al cuoco reale come cuocerla così, all’ignaro chef, venne in mente di creare con le foglie …un’insalata.

La regina non dovette gradire molto il pranzo visto che passarono duecento anni, prima che il tubero fosse impiegato comunemente nelle cucine.

In Germania si diffuse a partire dal XVIII secolo e nei Paesi Bassi divenne alimento nazionale nel XIX secolo.

Vero e proprio fallimento fu invece la diffusione francese dello “strano ortaggio”, come lo additavano, seppure Maria Antonietta assieme alla casa reale cercò di promuoverne il consumo portandone, in una sorta d’antico sponsor, i fiori sul corpetto.

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Guerra dei 7 anni

Fu il farmacista Parmentier, scoperte le sue proprietà dietetiche quand’ era prigioniero dei prussiani nella “Guerra dei 7 anni”, ad appoggiarne l’impiego ottenendo un pronunciamento dell’Accademia di Besancon che proclamò nel 1771 la patata: <pianta che può supplire alla nutrizione dell’uomo in tempo di carestia>.

Il farmacista desunse inoltre la sua fondamentale funzione nello studio degli eventi storici, tra cui le guerre fratricide che intorno ai secoli XVI e XVII dilaniarono l’Europa.

Le soldatizie, per conquistare i popoli, solevano bruciare le messi di grano per affamarli eppure, ciò nonostante, gli agricoltori evitarono la strage d’intere generazioni sostituendo grano con patate che, oltre a non poter essere bruciate poiché protette dal terreno, potevano anche essere conservate per anni nelle cantine.

In Italia la patata fu introdotta da Ferdinando II, granduca di Toscana, nei primi anni del XVII secolo, ma fu solo nel primo ‘800 che le nostre popolazioni superarono il timore della loro velenosità.

Il mais: un rimedio storico alle carestie

pannocchie<In un pomeriggio di fine estate, nel tepore della mezza stagione che si colora di giallo marrone e vinaccio, è schierata nei poderi la grande armata di granturco, adorna di pennacchi, pronta alla colossale battaglia…dei pop corn.>

Nella cognizione comune l’idea di “pop corn” corre indietro negli anni e si lega strettamente a quelle immagini di vecchi cinematografi americani, ignorando i più, che i nostri avi contadini nelle fiorenti campagne facevano largo uso di “cappelletti”, abbrustoliti sul fuoco con la “conciarella” del grano. Dalle pannocchie si ricavava la farina di mais, impiegata per i piatti tipici della tradizione : per la polenta condita specialmente con sughi di cacciagione e per la pizza di “grandign”, accompagnata alla verdura.

<Ogni ricchezza dalla terra viene> recitava un antico detto popolare, significando che chi voleva mangiare adeguatamente nel corso dell’anno, in qualità e quantità, doveva ben coltivare il proprio campo.

La raccolta del frumentone avveniva, ed in alcune famiglie ancora avviene, tra settembre ed ottobre, creando l’occasione per organizzare, a lavoro ultimato, qualche festicciola.

Dopo aver staccato dalla pianta le pannocchie, si lasciavano ad essiccare per qualche giorno, per poi incontrasi nuovamente allo sfoglio del torso, cioè quando i chicchi di mais erano separati dalle foglie a loro volta ribaltate per intrecciarle in corone, rese più forti dall’aggiunta di giunco. Quest’operazione era dedicata alle pannocchie migliori, i cui chicchi sarebbero stati utilizzati in primavera per la semina.

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Materasso di scartocci – immagine dal web

I più poveri invece, non possedendo lana di pecora, ne facevano materassi di “scartocci”. La parte buona, vale a dire il torso con i chicchi, si mangiava cucinata lessa o fatta alla brace, mentre i chicchi più duri, sgranati, erano di volta in volta macinati nei mulini. Era convinzione popolare che <per i poveri la farina di mais fosse l’equivalente della farina di grano per i ricchi>.

Se col granturco il contadino italiano “visse poveramente ma non morì di fame”, lo stesso concetto potrebbe essere applicato ai casi olandesi e irlandesi con l’introduzione della patata. Il granturco permise dunque la sopravvivenza, ma certamente non produsse mutamenti, da un punto di vista proteico e vitaminico, di calorie e di minerali nei più diffusi standard e parametri nutritivi. Il mais liberò gran parte della popolazione dalla stretta dipendenza dai cereali tradizionali: non solo dal grano, che in molti casi era una sorta di miraggio, quanto da orzo, miglio, grano saraceno, segale, che troneggiavano sulle mense rurali sia sotto forma di schiacciate o di pani, sia come polenta “bigia” di manzoniana memoria.

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La polenta cucinata in modo tradizionale – immagine dal web

Il mais è un cereale e costituisce il seme “zea mays, pianta erbacea annua della famiglia delle graminacee. Esso è originario dell’America centro-meridionale ed il suo nome primitivo, “maiz” è di derivazione arauca. Quando i conquistadores spagnoli arrivarono in Messico, trovarono una civiltà molto avanzata e dai costumi culinari a loro avviso molto strani. Tuttavia i banchetti serviti alla corte di Moctezuma erano degni di figurare nei più sontuosi festini offerti alle corti del “vecchio continente”.
La dieta dell’età precolombiana era basata sull’uso del mais, considerato pianta sacra. “Tortillas”, “tamales” e tanti altri piatti tipici messicani venivano confezionati con la sua farina.
Questo regime dietetico a base di granturco veniva integrato con carne soprattutto cacciagione e verdure come pomodori, patate dolci e fagioli.

In Italia si trovano quasi esclusivamente mais di tipo “indurata”, cioè a granello in parte corneo e in parte farinoso.

Come nasce il grano? Dalla dea Cerere, all’eroe Giasone, da Osiride a Enea. La storia del prezioso alimento dall’antichità fino alle leggende europee

spighe-di-granoUn mare dorato in questo mese colora i campi di ogni dove; spighe di grano giallo come raggi di sole dipingono il mistero delle origini del pane.

Dopo l’impiego delle ghiande lavorate da parte delle popolazioni nomadi preistoriche come fonte di nutrimento, la più grande scoperta alimentare dell’uomo è stata quella dei cereali, sacri alla dea Cerere, divinità delle messi coltivate dalla quale prendono il nome.

Le origini del grano sono intrise di mito e religione, a partire dal Caino biblico che incarna il prototipo dell’agricoltore, al quale il fratello Abele, pastore nomade, distrusse il raccolto facendo pascolare il suo bestiame nel campo prospero di messi.

Alcune testimonianze archeologiche attestano, grazie al ritrovamento di rudimentali aratri, che i cereali erano presenti in Egitto, Mesopotamia e Palestina già 8 mila anni prima di Cristo.

Nel bacino del mediterraneo, gli aedi, in vario modo, hanno narrato le origini delle messi, dal viaggio degli argonauti guidati da Giasone alla ricerca del vello doro, alla leggenda dello spirito del grano egizio Osiride, alle peripezie d’astuzia di Enea contro Cerbero e le arpie.

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Giasone e le prove da superare per conquistare il Vello d’Oro

Nella prima leggenda, d’origine greca, l’eroe Giasone conduce un manipolo d’uomini prodi, per l’appunto gli argonauti, nella spedizione che avrebbe dovuto consegnare alla Tessaglia il “vello d’oro”, cioè il manto di un leggendario montone aureo, custodito nella Colchide, l’attuale Ucraina. Gli interpreti sono per lo più concordi nell’interpretare il mitologico vello quale metafora dei campi di grano di quella regione. A sostegno di questa tesi citano la prova estrema che Giasone è chiamato a superare per portare a compimento l’impresa. Egli avrebbe dovuto domare due tori infuriati e poi attaccarli ad un aratro con il quale avrebbe lavorato un terreno mai dissodato prima, seminandovi “denti di drago di colore giallo” dai quali sarebbero nati altrettanti draghi che egli avrebbe dovuto abbattere a colpi di spada. Risulta evidente la similitudine con la coltura del grano e la sua mietitura.

Nonostante non ci siano riferimenti precisi sull’origine dei cereali, la tradizione scritta attesta che gli uomini gliene attribuirono sempre una divina, legata a leggende in cui sono presenti i temi della vita, della sessualità e della morte.

Il grano assume perfino valore di cibo sacro, viatico per accedere al mondo degli inferi; Nel VI libro dell’Eneide Virgilio descrive come il protagonista per entrare nell’Aldilà addormentò Cerbero, il mostruoso cane a tre teste custode infernale, con una <saporosa focaccia di farina impastata con erbe e miele>.

Virgilio nello stesso poema testimonia come di farina fossero fatti anche i piatti nei commensali, quando narra la maledizione che l’Arpia scaglia contro Enea: <Tu e i tuoi compagni d’ora in poi patirete tanta fame da addentare anche le mense>.

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Cottura del pane nel Medioevo

La profezia si avverò ma l’eroe si ritrovò con i suoi compagni ad “addentare” delle gustose focacce di pane, per l’appunto impiegate nell’antichità come base per tagliare i cibi nei banchetti. Una curiosità a riguardo è che il detto comune ”Mangiare dalla stessa mensa” deriva dalla pratica medievale di distribuire un disco di farina, cioè una “mensa”, ogni due persone.

Un altro mito avvincente che sottolinea il legame del grano con l’altro mondo è quello del dio Osiride, figlio del cielo e della terra, il quale aveva insegnato agli uomini l’arte della coltivazione.

Il benefico Osiride venne ucciso e smembrato in 14 parti dal fratello geloso Seth, l’oscuro, che disperse le sue membra per tutto l’Egitto. La sua sposa Iside riuscì a ritrovarle e a ricomporre il corpo. I due si unirono e fu concepito Horus, destinato a prendere immediatamente il posto del padre, che lasciando un erede potette risorgere in Ra, signore dell’Oltretomba.

In quell’epoca nelle cerimonie della fertilità, nei campi veniva rinnovato concretamente il sacrificio di Osiride, e la semina del suo corpo fatto a pezzi, testimoniava come le   spighe fossero sacre, derivando direttamente dalle parti della divinità.

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Cerere la dea delle messi coltivate

In Grecia i culti legati ai poderi si svolgevano in nome della già citata Cerere, dea della crescita e di Bacco, dio della fecondazione e delle vigne. Essi erano indicati come “Feriae seminativae”, durante le quali si svolgevano succulenti banchetti e libagioni di vino. Quello di Cerere sin da principio nacque come culto popolare e i plebei dedicarono alla bionda dea un tempio innalzato sull’Aventino, venerandola assieme alla figlia Proserpina e a Bacco nella cosiddetta triade plebea, contrapposta a quella capitolina di Giove, Giunone e Minerva, simbolo del potere nobiliare.

I riti legati al grano e alla mietitura non riguardano unicamente l’antichità, molti sono pervenuti sino ai nostri giorni, tramandati nella tradizione popolare.

L’antropologo James Gorge Frazer, nella sua opera “Il ramo d’oro” del 1890, annovera molte testimonianze sui riti agricoli legati allo spirito del grano diffusi sul territorio europeo.

In Germania, ad esempio, quando il grano era maturo si suggeriva ai bambini di non andare a cogliere fiori nei campi perché la “Madre del grano” poteva rapirli. Ella si aggirava di notte con le sembianze di una donna vestita di bianco, e se il contadino per qualche mancanza l’avesse fatta adirare, lei si vendicava facendo seccare in un istante tutta la piantagione.

Frazer evidenzia come un po’ ovunque gli agricoltori ritenessero che la madre del grano fosse presente nell’ultimo fascio di spighe che restava in piedi sul campo, tagliando il quale ella veniva presa o cacciata via. Per questa ragione con le ultime spighe veniva realizzato un covone a forma di donna, adornato e vestito, che era portato su un carro in corteo per tutto il paese, accompagnato da ragazze agghindate con corone di spighe.

In altri rituali il fantoccio veniva battuto fin quando tutti i chicchi non cadevano, si diceva che solo facendo così si poteva scacciare la “Vecchia del grano”. A volte era battuto anche quel contadino che per ultimo finiva di mietere il proprio terreno. La domenica seguente la conclusione della mietitura la ghirlanda, composta delle spighe della bambola del grano, era portata in chiesa e fatta benedire.

Lo spirito del grano rappresentava allo stesso tempo qualcosa da auspicare e da cacciare.

In Scozia si consumava una vera e propria lotta per non restare ultimi, giacché si temeva che in tal caso una carestia si sarebbe abbattuta sul podere, causata da questa vecchia immaginaria, che avrebbe scelto quell’ultimo campo per dimorare nell’anno successivo, chiedendo continuamente di essere sfamata.

campi-di-grano-e-papaveri-sui-fiori-sardegna-italia_162447-29In Bulgaria era l’intero villaggio che si occupava della “Regina del grano”. La bambola dopo la mietitura era buttata in un fiume per propiziare abbondante pioggia e rugiada per l’anno avvenire, oppure bruciata per spargerne le ceneri e fertilizzare i campi.

In altri paesi il covone era chiamato “Sposa del grano”, veniva portato a casa in trionfo e conservato sino alla mattina di Natale quando sarebbe stato dato come pasto ad una cavalla gravida, quale auspicio di fertilità, per la famiglia, per il cibo e per la felicità.

Di fichi, latte ed altri miti…

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Le mille e una notte, immagine dal web

Un giorno Nasreddin Hodja si mise a raccogliere delle angurie nel suo orto per offrirle al Tamerlano. Dopo averle caricate  nelle due ceste sul suo asinello, s’incamminò verso la reggia. D’improvviso, sulla via, incontrò un amico che lo salutò così: <Merhaba – Ciao – Hodja! Dove stai andando con quel carico?>; e Nasreddin: <Dal Tamerlano, gli porto delle angurie dal mio orto>. E l’amico: <Te lo sconsiglio vivamente; so che non gradisce questo frutto, preferisce i fichi>.

Il buon Nasreddin, conoscendo la saggezza del compagno, sostituì il dono con una gran quantità di fichi polposi e zuccherini.

Arrivato dal Tamerlano glieli offrì con inchini e salam-e-lecchi. Il Tamerlano prese un fico e lo mangiò, ne prese un altro è lo buttò sul viso del povero Nasreddin. E continuò così per un bel po’. Ad ogni fico che gli veniva sbattuto in faccia, il dimesso Nasreddin alzava le mani al cielo dicendo: <Shukur Allah!> (Dio ti ringrazio!)… Quando l’ospite fu ben sazio, incuriosito da tanta gratitudine, gliene chiese la ragion . Nasreddin rispose con enorme candore: <Maestà, come faccio a non ringraziare Allah che ha messo sul mio cammino un amico il quale mi ha dato un ottimo consiglio. Se non gli avessi dato retta, ora mi troverei livido e bagnato sotto una montagna di angurie!>.

“Shukur Allah!”

I fichi sono difatti i protagonisti, oltre che delle tavole imbandite d’agosto, anche di miti, leggende, tradizioni e dipinti.

fichiUno scrigno verde che nasconde un inaspettato tesoro vermiglio… colori vivaci che hanno ispirato artisti nei vari campi del sapere.

I fichi sono il frutto di una pianta originaria del medio oriente, il Ficus carica. Noti fin dall’antichità, erano molto graditi dagli antichi greci, i quali erano soliti cucinarli secchi nell’impasto del pane  e dai romani, che li utilizzavano come cibo di riserva per le legioni che partivano in battaglia.

 “La campagna delle foglie di fico”…

Il cardinale Carafa censura Michelangelo Buonarroti

<Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formare un’idea apprezzabile di cosa un uomo sia in grado di ottenere>.

Il commento di Johann Wolfgang Goethe, filosofo, scrittore e scienziato, ben riesce a trasporre in parole l’emozione che suscita la grandiosità sublime dell’opera d’arte di Michelangelo Buonarroti… Bellezza, estro e genio. Un personaggio poi, scomodo per l’inquisizione, ardito per i tempi, ma troppo ingegnoso per essere messo da parte.

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La creazione di Michelangelo Buonarroti

La Cappella Sistina è uno dei più famosi tesori artistici della Città del Vaticano, costruita tra il 1475 e il 1483, all’epoca di Papa Sisto IV della Rovere. È conosciuta in tutto il mondo sia per essere la sala nella quale si tengono il conclave e altre cerimonie ufficiali, comprese alcune incoronazioni papali, sia per essere stata decorata dal nostro Michelangelo.

Già altri artisti, al suo interno,avevano dipinto raffigurazioni secondo un’alternanza tra temi religiosi e storici, selezionati e divisi in base al concetto medievale di storia del mondo, ripartita in tre epoche: prima dei dieci comandamenti, tra Mosè e la nascita di Cristo, e l’era cristiana successiva. Essi sottolineano la continuità tra il patto antico e il nuovo patto, e la transizione dalle leggi mosaiche alla religione cristiana.

Michelangelo Buonarroti fu incaricato, nel 1508 da Papa Giulio II della Rovere, di ridipingere il soffitto, che originariamente raffigurava delle stelle dorate su un cielo blu, opera di Piermatteo da Amelia. Il lavoro fu completato il 1 novembre 1512. Michelangelo dipinse il Giudizio Universale sopra l’altare, tra il 1535 e il 1541; lavoro commissionato da Papa Paolo III Farnese.

All’artista fu chiesto di dipingere solo 12 figure, cioè gli apostoli; quando il lavoro fu finito, tuttavia, ve ne erano più di 3 mila. Il Giudizio Universale fu oggetto di una pesante disputa tra il Cardinale Carafa e Michelangelo. Quest’ultimo  fu accusato di “immoralità e intollerabile oscenità”, poiché aveva dipinto delle figure nude, con i genitali in evidenza, all’interno della più importante chiesa della cristianità, perciò una campagna di censura per rimuovere gli affreschi, nota come “campagna delle foglie di fico” fu organizzata da Carafa e Monsignor Sernini (ambasciatore di Mantova). Quando il maestro di Cerimonie del Papa, Biagio da Cesena, fece una denuncia simile del lavoro, dicendo che “era più adatto a un bagno termale che a una cappella”, Michelangelo raffigurò i suoi tratti nella figura di Minosse, giudice degli inferi. Si narra che quando Biagio da Cesena si lamentò con il Papa, il pontefice rispose che “la sua giurisdizione non si applicava all’inferno”, e così il ritratto rimase.

In coincidenza con la morte di Michelangelo, venne emessa una legge per coprire i genitali. Compito affidato a Daniele da Volterra, apprendista di Michelangelo, che dopo questo lavoro venne soprannominato “Braghettone”. Egli coprì le parti intime delle figure con delle specie di perizomi, lasciando inalterato il complesso dei corpi.

Le foglie di fico furono scelte per un motivo ben preciso. Innanzi tutto la pianta era già conosciuta ai tempi dell’Antico Testamento giacché Adamo ed Eva se ne coprirono dopo essere stati scacciati dall’Eden…

Dopo aver commesso il peccato mangiando la mela, tutti gli alberi del paradiso terrestre persero le foglie, tranne uno… il fico. Questo non fu casuale.

Dio volle dar loro un mezzo per la redenzione, poiché l’albero di fico simboleggiava la conoscenza, l’abbondanza e la fecondità …

Sica e Bacco, Scilla e Cariddi, Giuseppe e Maria, in comune: un frutto

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Bacco

Bacco, il titano fratello di Zeus, dio dell’ebbrezza e del vino, ama coronare il suo capo di foglie di fico…

La leggenda narra che la divinità greca apprezzi tanto questa particolare pianta perché è stato egli stesso a crearla, trasformando la ninfa Sica, che lo aveva amato, proprio in questo albero. Così per tenerla costantemente con sè ha trovato l’espediente estetico.

Diversa è la storia di Scilla e Cariddi.

Cariddi è il nome attribuito al vortice  creato dalla corrente nello Stretto di Messina, al largo di Capo Peloro. Un tempo rappresentava un serio pericolo per le esili imbarcazioni, soprattutto quando, durante le frequenti burrasche, esse venivano sbattute, dalla forza dei vortici originati dalla corrente, contro gli scogli della Calabria.

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Lo stretto di Messina in una cartina antica

Nella mitologia greca, Scilla figlia di Crateide, era una leggiadra fanciulla, dai lunghi capelli che le adornavano le rosee guance e dallo sguardo incantato, la quale innamoratasi di Glauco, una divinità marina, pregò la maga Circe che glielo rendesse favorevole.

Circe, però lo amava anch’essa e, per gelosia, avvelenò la fonte dove la ninfa era solita bagnarsi: quel veleno la tramutò in un orrendo mostro, con la parte inferiore del corpo a forma di pesce circondato da sei teste di cani dalle bocche irte di denti.

Ella, allora, in preda alla disperazione si gettò nel mare di Sicilia. Dal gorgo che la inghiottì sorse una scogliera nella quale continuò a vivere l’anima perfida del mostro, particolarmente spietato contro i naviganti.

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I vortici creati dai mostri Scilla e Cariddi

Di fronte a Scilla, al di là dello Stretto, sul versante siciliano, fu posto un altro terribile mostro, Cariddi, figlia di Forco  (o di Poseidone) e della Terra. Mostro dedito alle rapine, sempre insaziabile nella sua voracità. Nell’Odissea, Omero narra che Cariddi dimorava invisibile sotto uno scoglio dominato da un fico selvatico, intenta ad ingoiare e rigettare i flutti del mare.

Un’altra leggenda, questa volta calabrese, racconta che Maria, Giuseppe e Gesù, mentre stavano fuggendo da Nazareth verso l’Egitto per scampare alla strage ordinata da Erode, trovarono rifugio di notte sotto un albero di fico che accolse la sacra famiglia allargando le sue grandi foglie fino a nasconderla agli occhi dei soldati.
Il mattino seguente, svanito il pericolo, la Madonna uscì e benedicendo l’albero disse: <Due volte all’anno darai i frutti più dolci della terra>.

Il cibo preferito dall’imperatore Tiberio? Il melone. Ecco la storia del frutto che si camuffò per secoli da ortaggio…

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Il melone, tra la frutta estiva più amata

IL MELONE, il frutto del solleone, nacque piccolo, amaro e soprattutto ortaggio…

Ne è testimone Plinio il Vecchio che, nella sua Naturalis Historia, lo descrive come una “varietà assolutamente nuova di cetrioli a forma di mele cotogne

La pianta del melone è una erbacea a ciclo annuale della famiglia delle Cucurbitacee, imparentata strettamente con le zucchine.

Alexandre Dumas ne scrisse rivelando come tale frutto crescesse spontaneamente nelle terre dei Calmucchi e che, a breve distanza, sulle rive del Caspio, ne venisse commercializzato un grande numero. In effetti, le origini del melone sono remote e vanno ricercate nell’Africa australe dove da sempre cresce spontaneo, come l’anguria, di forma molto piccola e di sapore tendenzialmente amaro.

Intorno al V secolo a.C. gli Egiziani ne coltivarono una varietà dolce, con dimensioni molto più grandi, grazie all’abile selezione degli orticoltori, che conservarono i semi dei frutti migliori per l’anno successivo. Originariamente si mangiava con pepe ed aceto, condito come un’insalata.

Dalle fertili terre del Nilo, gli egiziani presero ad esportarli presso gli altri paesi del mediterraneo, a cominciare dalla Grecia dove si diffusero rapidamente.

Dobbiamo attendere fino all’era cristiana per avere testimonianze certe, con i dipinti di Ercolano, della coltivazione del melone in Italia. In letteratura, come spesso accade per i prodotti dell’agricoltura, è Plinio il Vecchio, a menzionare per primo i popones, raccontando che “il melone piaceva moltissimo all’imperatore Tiberio”. Columella, invece, li chiama melones.

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Il garum, la salsa preferita degli antichi romani

Gli antichi romani amavano oltre misura ogni prodotto che giungesse da lontano e costituisse una novità. Il melone fu dunque un successo, presente sulle loro tavole nei banchetti più importanti, era generalmente servito ad insalata, condita appunto con pepe e aceto di vino e insaporita con il garum, la celebre e onnipresente salsa capitolina di sapore aspro.

Con il passare del tempo la sua fortuna crebbe a tal punto che l’imperatore Diocleziano emise un apposito editto che tassava gli esemplari che superassero il peso di 200 grammi.

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L’imperatore Diocleziano, che emise un’apposita legge sul melone

Questa è una prova in più del fatto che le dimensioni medie del melone restavano contenute, cosa che chiarisce la notizia relativa al fatto che l’imperatore Albino, nel II secolo a.C., riuscisse a mangiarne dieci ad ogni pasto.

In pieno Rinascimento i monaci di Cantalupo, nei pressi di Roma, coltivarono per i pontefici

una specie di melone particolarmente gustosa e ricca di succhi zuccherini, che dalla località dove erano prodotti presero il nome odierno.

I francesi debbono a Carlo VIII la “scoperta” del melone, mentre gli svedesi hanno dovuto “attendere” fino al XV secolo per poter gustare l’odoroso frutto zuccherino.

 

 

Domani il sole sorgerà? Chissà, rispose David Hume

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David Hume

David Hume (XVIII sec.), tra i maggiori esponenti della corrente empirista, quella che sosteneva che non esisteva conoscenza prima dell’esperienza sensibile, definisce se stesso uno scettico moderato. Questa descrizione deriva dal fatto che secondo il filosofo scozzese la scienza dell’uomo è costituita da esperienza ed abitudine e si fonda sulle impressioni e sulle idee.

Le impressioni sono forti e vive, e rappresentano l’attimo stesso in cui si fa conoscenza di un qualcosa di nuovo. Esse lasciano traccia nell’uomo come ricordo, ovvero le idee. Esempio. Il calore del fuoco nel momento in cui mi riscalda le mani, provoca in me una impressione. Quando ripenserò al fuoco, ricorderò quella sensazione, anche se in quel momento il fuoco non c’è. Ma essendo solo un ricordo non è forte come l’esperienza stessa. Siamo di fronte alle idee. L’intelletto lavora su di esse ma non è libero. Per combinarle e separarle deve seguire le tre regole del principio di associazione.

La contiguità spazio temporale, la rassomiglianza e la causalità. Senza addentrarci in discorsi troppo complessi ci dedicheremo alla causalità. Se A è causa di B e A1 è un fenomeno simile ad A ma non identico, sarà causa di B1 ovvero un effetto simile a B ma che non è B. E via di seguito.

Arrivati ad A4 secondo voi cosa segue? B4 risponderete. Ma non potete esserne certi. Dunque come mai avete risposto B4? Per l’aspettativa conferita dall’abitudine. Allora secondo voi, domani mattina sorgerà il sole? Risponderete di si . Ma lo farete perché da quando siete nati, tutti i giorni è spuntato il sole, ma non potete esserne sicuri da un punto di vista scientifico. Chi ci dice che non avvenga qualche improvviso cataclisma cosmico che impedisca al sole di sorgere?

Hume si definisce uno scettico moderato, perché è vero che nessuno sa se domani il sole sorgerà, ma si può anche affermare che mai nessuno se l’è chiesto o l’ha messo indubbio. Ci aspettiamo, per abitudine, che l’alba si verificherà.

La simbologia dei numeri di Pitagora

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Pitagora di Samo

Il filosofo e matematico Pitagora di Samo (580 a.C. – 495 a.C) diede vita ad una setta, alla quale si poteva essere ammessi solo dopo aver superato una prova di iniziazione, probabilmente consistente nella  risoluzione di un quesito matematico. Gli adepti, tutti vestiti in lino bianco, praticavano una vita in comune tutta dedita allo studio, e avevano l’obbligo di non rivelare mai cosa accadeva in questo circolo e le nozioni apprese. Se questo giuramento non fosse stato rispettato, chi avesse rivelato i segreti pitagorici, sarebbe morto all’istante, punito da Zeus. Lo stesso Pitagora era considerato un semidio, e ciò che diceva rappresentava una verità assoluta, incontestabile.

Tra le teorie c’era il ruolo attribuito alla simbologia dei numeri, elementi fondamentali nelle teorie matematiche.

Essi erano tutti numeri interi, distinti in pari e dispari. I primi, imperfetti, rappresentavano le donne, i secondi, perfetti, rappresentavano gli uomini.

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I numeri sacri di Pitagora rappresentati su un piano geometrico

Tra i numeri, insieme di più unità, ce ne erano alcuni particolarmente importanti. Tra essi l’1, detto parimpari, poiché serviva sia a costituire i numeri pari, sia i numeri dispari, ma di per se non era né l’un né l’altro.

Il 2, primo numero pari, rappresentava la donna, il 3, primo numero dispari l’uomo, il 5, ovvero la somma di 2+3 rappresentava il matrimonio.

Il 4 (2 x 2) e il 9 (3 x 3) rappresentavano la giustizia, consistente nella legge del taglione, “Occhio per occhio, dente per dente”. Il 10 era il numero più importante, alla base anche del sistema astronomico. Era dato dalla somma del parimpari (1), del primo pari (2) del primo dispari (3) del primo quadrato (4).

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La Tetraktys

Queste unità disegnate su un piano geometrico, costituivano la Tetraktys, il triangolo sacro pitagorico, venerato nella mistica dei numeri. La figura geometrica perfetta era invece il cerchio, poiché ogni punto è equidistante dal centro.

Qualcuno rivelò mai il segreto pitagorico? Si, Ippaso di Metaponto. In cosa consisteva? Nel fatto che lo stesso teorema di Pitagora, confuta uno dei capisaldi del pensiero della setta, ovvero che tutti i numeri sono interi. L’applicazione del teorema dimostra che i risultati danno anche numeri decimali.

Ippaso è stato punto da Zeus come diceva la leggenda? Pare di si, infatti la sua nave, sulla quale stava fuggendo da Crotone, fu distrutta in mare aperto da una terribile tempesta.

Curiosità sul pomodoro, giunto dall’America, temuto come velenoso, usato nei filtri alchemici, come dono d’amore, e dato ad Abramo Lincoln per avvelenarlo…

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Dipinto di Jane Carroll

<Dimmi che cosa mangi e ti dirò che cosa sei> esordì il filosofo Anthelme Brillat-Savarin nella sua celeberrima teoria…e, noi italiani, dovremmo essere proprio delle anime belle, esaltando, da sempre, genuinità e buoni ingredienti quali scettro e corona della nostra Regina culinaria, dama Mediterranea.

Un posto d’onore sulle nostre tavole è il pomodoro, pregiato oro rosso nel nostro tesoro gastronomico.

Ma donde viene il pomo d’oro?

In Europa esso è un bene acquisito, la sua originaria paternità è americana.

Tant’è vero che le salse, nel vecchio continente, fino al Rinascimento, erano generalmente di colore bruno, a base di pane, aceto, vino e abbondanti spezie. Fu nel Seicento che la cucina maestosa di Versailles tinse i piatti del Re Sole di bianco con la creazione della béchamel così come gli spaghetti napoletani, che negli stessi anni, divennero nivei, insaporiti con parmigiano e una spruzzatina di pepe nero in omaggio ai carboni vesuviani.

Sarà il pomodoro a cambiare, per sempre, gusto, profumo e colore delle cibarie di tanti Paesi.

Le prime piante solcarono i mari europei, nel XVI secolo, sulle navi dei conquistatori spagnoli, di ritorno dalle Americhe, al seguito di Hernàn Cortès,

Originarie del Perù, pare fossero utilizzate quale infestante fra le piante di mais.

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Immagine dal web

Si è inoltre scoperto, dallo studio di alcuni documenti, che il pomodoro era diffuso tra gli Aztechi ben tremila anni prima dell’approdo nel Nuovo Mondo dei conquistadores, e che nel Cinquecento i pomodori costituissero, tra Perù e Messico, un alimento preminente, assieme alla manioca e al granturco.

Le antiche ricette di condimenti a base di quest’ortaggio, facilmente reperibile nel variopinto mercato di Tenochtitlàn, capitale del regno di Montezuma, sono descritte nell’Historia general de las cosas de la Nueva Espana, del francescano Padre Bernardino de Sahagun.

<Le donne Nahua- annota- sono solite preparare le loro salse, dal gusto molto saporito, con aij (peperoncino), tomatl (pomodoro), pepitas (semi di zucca), chiles verdes (peperoncini verdi piccanti) …>.

Il frutto ortense, mangiato quotidianamente, era spesso preparato acerbo, tagliato in fette sottilissime oppure stufato maturo in casseruola per arricchire pietanze di pesce o di pollame.

Tuttavia l’opera di padre Bernardino, fu pubblicata solo nel 1829, e per giunta in Messico, di conseguenza l’Europa ignorò, per anni, il potenziale gastronomico del pomodoro, usandolo come pianta ornamentale, funzione suggerita dalle sembianze dei primi esemplari pervenuti, denominati <frutti color zafferano>, da Vincenzo Corrado, gastronomo-botanico vissuto nel XVIII secolo.

Così i moderni uomini di scienza rivestirono il pomodoro d’un alone di mistero.

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Immagine dal web

Per ben due secoli si pensò che esso fosse velenoso, a causa del suo alto contenuto di solanina, sostanza ritenuta nociva e, come tale fu classificato nel 1544 dall’erborista italiano Pietro Mattioli, che pur ammise di aver udito alcune voci su regioni ove era mangiato fritto nell’olio.

La sua erronea catalogazione era attribuibile al fatto che, nei primi tempi, ci si cibò con le foglie invece che con i frutti.

All’ortaggio, furono attribuiti nel XVI e XVII secolo, anche misteriosi poteri afrodisiaci, talmente potenti da impiegarlo in pozioni alchemiche e filtri magici.

Tale funzione si rispecchia nei suoi nomi originari, love apple in inglese, pomme d’amour in francese, libesapfel in tedesco e mela d’oro in italiano, tutte definizioni con un esplicito riferimento all’amore.

In seguito si predilesse il suo nome spagnolo, tomate, generando, nelle lingue europee, la moderna dicitura.

Numerose sono inoltre le leggende sull’imperscrutabile diffondersi dell’ortaggio nelle culture europee.

Nel 1640 la nobiltà di Tolone regalò al cardinale Richelieu, in atto d’ossequio, quattro piante di pomodoro e pare che sempre in Francia, fu in uso nel corteggiamento, offrire in pegno d’amor gentile delle piantine di pomodoro alle dame.

Si diffuse, poi, come ornamento in tutto il bacino del mediterraneo, partendo dalla Spagna, attraverso il Marocco e trovando il clima ideale per il suo sviluppo, in Italia, nella regione dell’agronocerino-sarnese, tra Napoli e Salerno.

Le prime testimonianze del suo consumo alimentare risalgono al XVII secolo in Francia e in Italia meridionale.

Tuttavia, mentre in Francia il pomodoro era coltivato solo alla corte dei Re in Italia si diffuse velocemente tra la popolazione, oppressa dai morsi della fame.

Nel 1762 Lazzaro Spallanzani ne definì per primo le tecniche di conservazione, notando come gli estratti fatti bollire e posti in contenitori chiusi non si alterassero.

L’incontro fra maccheroni e “pummmarola”, fu descritto, da Ippolito Cavalcanti per primo nel 1839, mentre la conquista della pizza da parte del pomodoro è citata, nel 1835, da Alexandre Dumas, quello dei Tre moschettieri, dove lo stesso specificava che la variante con il sugo era meno usata rispetto a quella con olio e aglio o con pesciolini.

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Immagine dal web

Nelle Americhe il passaggio fu più lento, essendo molto ben radicata la convinzione della sua tossicità.

Per sfatare tale credenza il colonnello statunitense Robert Gibbon Johnson provocatoriamente mangiò un pomodoro davanti ad una folla prevenuta e stupita, dimostrando di non morirne.

Addirittura si narra che alcuni nemici politici di Abramo Lincoln persuasero il cuoco della Casa bianca a preparare una cibaria con l’ortaggio per avvelenarlo.

Gran delusione quando si accorsero che il presidente non solo rimase vivo e vegeto ma, ironia della sorte, contribuì all’affermazione del prodotto.

In Italia, Francesco Cirio fu il primo, nel 1875, ad aprire un impianto, edificato in Campania, per la lavorazione industriale del pomodoro dopo aver inaugurato a Torino la prima fabbrica di piselli in scatola nel 1856.

 

Quali sono i nomi delle caravelle di Colombo?

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Cristoforo Colombo

Il navigatore ed esploratore genovese Cristoforo Colombo, nacque nel 1451. Era figlio di un tessitore di lana, Domenico e fratello di Bartolomeo, un cartografo.

Fin da piccolo, innamorato del mare, sognava una vita avventurosa, non dedicandosi alla sua istruzione. Anzi pare si rifiutasse di andare a scuola. Fu il padre che pazientemente gli insegnò le nozioni elementari, e Cristoforo, da autodidatta si dedicò alla lettura del Milione di Marco Polo. Fino a vent’anni seguì, il mestiere paterno, per non deluderlo. Ma il richiamo del mare, delle onde e del mondo allora conosciuto era come un irresistibile canto di sirena. Fu così che iniziò a viaggiare per mare al servizio di varie compagnie commerciali, sostenendo sempre più le teorie geografiche che si stavano diffondendo, sulla terra di forma sferica.

Si convinse che avrebbe potuto tracciare un percorso molto più breve, che permettesse di raggiugere le Indie, navigando verso Occidente, favorendo un potenziamento dei traffici commerciali con l’Oriente. Propose le sue idee a diversi regnanti ma gli esiti non furono quelli sperati. Fin quando non fu accolto in Spagna da Isabella e Ferdinando di Castiglia. L’argomentazione che essi apprezzarono fu quella che Colombo assicurò che avrebbe portato molto ora al suo ritorno. I sovrani spagnoli, grandi difensori della religione cristiana, intendevano usare quella ricchezza, per finanziare una nuova Crociata per liberare la Terra Santa.

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Le imbarcazioni di Colombo in un dipinto di Gianluigi Coppola

A Colombo furono affidate tre imbarcazioni, la Nina e la Pinta, che erano caravelle, navi piccole e veloci, e una caracca, più grande, che poteva trasportare più viveri e acqua. La Nina in spagnolo significava “figlia piccolina”, poiché era di dimensioni minori, La Pinta significava “la dipinta” perché era la più colorata, infine alla caracca fu dato il nome di Santa Maria, in richiesta di protezione della Vergine per l’impresa. Colombo viaggiava su quest’ultima nave, ma il primo a vedere la terra del Nuovo Mondo fu il comandante della Pinta. Per fortuna, perché, i marinai erano sul punto di ammutinarsi, giacché Colombo aveva calcolato male la traversata. Ci mise più tempo, e le scorte alimentari scarseggiavano, in mare aperto. Colombo scoprì l’America nel 1492 e morì nel 1506, ancor convinto di essere arrivato in Oriente. Colui che comprese che quelle terre erano uno spazio geograficamente nuovo fu Amerigo Vespucci, soprannominato l’uomo di lettere, perché era solito tenere straordinari diari di bordo. Per questo l’America si chiama in questo modo.