Curiosando sulla vita di Galileo Galilei: dalla salute cagionevole alla figlia suora

Quattrocentosessanta anni fa nasceva Galileo Galilei (1564–1842), fisico, matematico, astronomo, filosofo, fondatore del metodo sperimentale, padre della scienza moderna ma anche fervente credente, alla costante ricerca di un dialogo con la religione ed il Papa. Fu tuttavia tristemente famoso per essere stato il solo a ricevere l’anatema dalla Chiesa, ovvero la solenne maledizione.

Con questo pezzo si porteranno alla luce, tuttavia, gli aspetti meno noti della sua vita, ovvero la sua turbolenta situazione familiare e i suoi problemi di salute.

I problemi di una salute cagionevole

Galileo Galilei era alto e robusto, con i capelli che tendevano al rosso e, a detta del suo biografo Vincenzo Viviani, aveva uno sguardo intelligente e vivace.

Non godeva, tuttavia, di buona salute. La causa lo scienziato la attribuita a un incidente occorso a lui e ai suoi amici in adolescenza.

In una calda giornata d’estate si trovavano ospiti in una villa in Toscana, quando accaldati decisero di andare nella stanza più fresca della casa. Mentre erano addormentati, per una pennichella pomeridiana, un domestico spalancò una finestra, che di solito restava chiusa poiché per la sua posizione vi entrava un vento freddo. Tutti i ragazzi si ammalarono, uno morì dopo qualche giorno, un altro dopo qualche anno e i superstiti, tra i quali lo scienziato, risentirono degli effetti di quella forte febbre per tutta la vita.

I problemi di salute di Galilei erano tuttavia imputabili  all’ artrite reumatoide, patologia ereditata dalla primogenita Virginia, e alla forte depressione che gli causava inappetenza e tendenza alla somatizzazione.

Suor Maria Celeste alias Virginia Galilei

Gli affetti di Galilei

Galileo Galilei a  Padova s’innamoró di Marina Gamba (1570-1612) dalla quale ebbe tre figli: Virginia, Livia e Vincenzio. Con la donna convisse molti anni, ma non è chiaro il motivo per cui la sposò solo dopo la nascita del figlio maschio, l’unico riconosciuto.

Quando lo scienziato tornò in Toscana abbandonò Marina e portò la prole con sé.

La figlia che amò di più, ricambiato, fu Virginia, dal carattere simile al suo e dalla viva intelligenza scientifica. Pare che le mostrasse in anteprima tutti i suoi libri e che volesse da lei un parere sulle sue scoperte. Di Ella rimangono 124 lettere gelosamente custodite dallo Galileo, invece le lettere che lo scienziato le mandava, sono state tutte distrutte dalla madre priora.

Quando nacque Virginia, Galileo stesso le fece l’oroscopo, predicendo che la bambina, nella vita, sarebbe stata costantemente legata a Dio. Scelse lui nel 1613, di farla entrare nel monastero delle clarisse di San Matteo in Arcetri, a tredici anni. A sedici anni divenne monaca di clausura e scelse il nome di Suor Maria Celeste in onore del padre che la volta stellata studiava. Tra quelle mura perirà a soli 34 anni a causa di problemi di salute aggravati da una vita di stenti e dal freddo gelido della sua cella.

Anche Livia entrò in convento, ma controvoglia, un anno dopo rispetto alla sorella, prendendo il nome di Suor Arcangela. Così imputando allo scienziato la sventura della sua condizione, interruppe i rapporti con Galileo.

Il fisico, convinto che la vita religiosa assicurasse un reddito certo, voleva che anche Vincenzio seguisse questa strada, ma lui si rifiutò categoricamente, sostenendo di avere “un odio avvelenato” per un destino da prete, chiedendo di poter studiare giurisprudenza a Pisa, dove si laureò nel 1628. Si sposò, ebbe tre figli e si mantenne lavorando come cancelliere.

Le donne di piacere più famose dell’Antica Grecia

La moglie per procreare figli legittimi, la concubina per i rapporti sessuali stabili, l’etera per il piacere”. Questo il triangolo amoroso più agognato, secondo lo storico Apollodoro (180 a.C – 120 a.C), dagli uomini aristocratici della Grecia Classica.

Anzi, quanto più la compagna etera era desiderata dagli altri, tanto più si saliva di livello nel prestigio sociale. Le etere erano donne straniere istruite e di personalità, che spesso, grazie alla loro determinazione, riuscivano a ribaltare una sorte avversa, facendosi pagare centinaia di dracme per la loro compagnia, non necessariamente erotica. L’etera voleva essere vezzeggiata, per questo i suoi clienti, pur di compiacerla, le regalavano dipinti, gioielli, vestiti, profumi, cene costose. Essere etera significava essere libera dal giogo maschile e indipendente economicamente.

Fra esse la più pericolosa e affascinante era Laide (V sec a.C- IV sec a.C), una prigioniera di guerra siciliana, figlia di un’etera famosa, Timandra, compagna di Alcibiade (450 a.C – 404 a.C).

Il politico greco, bello e impulsivo, la preferì a Ipparéte, la moglie aristocratica e a Timea, regina di Sparta, sua amante, chiedendo a Timandra di accompagnarlo nell’esilio in Frigia.

Laide era quindi, in un certo senso, una figlia d’arte. Ereditò l’avvenenza materna e ricevette in dono alcune strategie erotiche. Era anche spiritosa e brillante. Sebbene trovò, nella maturità, un amore stabile, sfociato in una convivenza di fatto, le altre donne non le perdonarono mai il suo passato e con l’inganno la fecero partecipare a un rito nel tempio di Afrodite, dove la lapidarono.

Poi c’era Neera (400 a.C. – ?). Era una graziosa bambina abbandonata, proveniente dalla Tracia. Intorno al 390 a.C. fu acquistata da Nicarete, matrona di una delle “migliori” case di tolleranza di Corinto, polis famosa per la prostituzione a pagamento.  La donna era solita chiamare le sue etere, figlie, e le istruiva fin da piccole nella scuola della seduzione. Neera era famosa, perché dal bordello riuscì a conquistare la libertà. La sua vita non fu tuttavia felice, fu processata per frode, poiché sposandosi illegalmente con l’ateniese Stephanos, era riuscita a far ottenere ai loro figli, immeritatamente, la cittadinanza greca.

Su tutte troneggiava, tuttavia, Mnesarete (371 a.C. – 315 a.C.), la donna più avvenente e famosa dell’antica Grecia, a detta del commediografo Posidippo (310 a.C. – 240 a.C.).

Le forme del suo corpo erano talmente suadenti, da identificarla con la reincarnazione di Afrodite, rendendola modella per celebri statue che ritraevano la dea della bellezza.

Il suo seno bianco e procace le salvò addirittura la vita durante il processo che l’accusava d’Empietà. Gli ateniesi, difatti, volevano sbarazzarsi di lei, insopportabile “femmina”: indipendente, ricca, influente e spavalda. Si pavoneggiava, addirittura, che se Atena fosse stata un uomo non avrebbe indugiato un attimo nel dare via tutte le sue ricchezze pur di giacere con lei una sola notte.


















Quando la matematica va a braccetto con la filosofia: Karl Popper

Quando la matematica va a braccetto con la filosofia: Karl Popper

Karl Popper (1902-1994), iniziò la sua carriera come matematico e psicologo, divenendo poi,  uno dei maggiori filosofi della scienza del Novecento. Il suo pensiero, difatti, dimostra come spesso le discipline scientifiche vadano a braccetto con la logica filosofica. Fu anche un insigne esponente del Circolo di Vienna, cui aderirono pensatori provenienti dalle scienze esatte. La scuola, rappresentava l’ideologia del Neopositivismo, i cui interessi erano la logica formale, il metodo scientifico e l’atteggiamento antimetafisico.

Il loro punto di partenza, nella ricerca, è che spesso alcuni problemi sembrano irrisolvibili, non perché lo sono realmente, ma perché sono mal posti. Quindi per valicare l’insormontabilità apparente di questioni incompiute, bisogna riformulare le domande.

La constatazione di Popper è che ogni filosofia distaccata dalla scienza, non può portare a nessun risultato valido.

Dunque il passo da compiere è demarcare i confini tra scienza e metafisica.

Con che criterio?

Bisogna distinguere un’ipotesi pazza da una scientificamente valida.

Un’ipotesi scientifica è sempre falsificabile, ovvero controllabile e confrontabile.

La scienza di Popper è caratterizzata da un metodo ipotetico deduttivo. Per scienza intende quel complesso di proposizioni che sono state sottoposte a severi confronti, e li hanno superati. Ovvero le scienze sono state verificate e non sono state falsificate. Nulla tuttavia ci assicura che non potranno esserlo in futuro.

Faranno parte della metafisica tutte quelle proposizioni che non possono mai essere falsificate. Quindi non verificabili e confrontabili. Ad esempio la teologia non è scienza poiché non potremo mai conoscere il suo oggetto, cioè Dio, poiché Egli è perfetto e infinto. E gli esseri umani non sono né l’uno né l’altro.

Non tutti i miti del passato tuttavia, sono condannabili. Dice Popper che ad esempio il culto del dio Sole ha reso possibile la nascita del sistema copernicano.

Popper aggiunge che la scienza è costituita da varie teorie in lotta tra di loro per la sopravvivenza. E’ accettata la teoria che ha un maggiore contenuto empirico. Occorre controllare due teorie opposte tra loro e verificare attraverso l’esperienza quale delle due sopravvive.

Riassumendo, le teorie che sopravvivono nella scienza, sono: quelle con maggior contenuto empirico; quelle che superano le teorie rivali; quelle meglio controllate.

Friedrich Nietzsche dal cuore infranto

Friedrich Nietzsche,  all’apparenza, con i suoi folti baffi neri e l’aspetto tozzo, non era una grande bellezza, ma era pur sempre super intelligente. Tant’è che ottenne a soli 24 anni, la cattedra di filologia greca e latina all’Università di Basilea. La donna che attrasse i suoi desideri, sentimentali e carnali, fu la giovane ex ballerina russa Lou Salomè, una bellezza sinuosa e delicata per i canoni di fine Ottocento. Il filosofo se ne innamorò perdutamente, oltre che per la sua avvenenza,  per la sua intelligenza.

Lou era figlia, unica donna su una prole di sei, di Gustav, un generale russo, la cui dimora era di fronte al Palazzo d’Inverno. La ragazza ricevette un’istruzione lodevole: conosceva il francese, il tedesco, era erudita di filosofia, teologia e storia delle religioni. Il suo talento, la sua preparazione e il suo sapersi presentare in società, la trasformarono, nella vita, in una scrittrice e in una psicoanalista, collaboratrice molto apprezzata da Sigmund Freud.

Ella conobbe Nietzsche che all’epoca aveva 38 anni nel 1882, a Roma in San Pietro, quando lei ne aveva appena 21. Il filosofo tedesco, fu invitato dal collega Paul Rèe a conoscere questa donna straordinaria di cui anche lui era innamorato, e dichiaratosi era stato rifiutato. Per Nietzsche  fu amore a prima vista e le chiese:  “Cadendo da quali stelle ci siamo venuti incontro fin quaggiù”?

Il tedesco le propose di costituire una sorta di cenacolo, una trinità filosofica, con il comune amico Paul Rèe, che di anni ne aveva 32.

Friedrich era un uomo che non perdeva tempo e propose a Lou di sposarlo, ma lei rifiutò. Lui cadde in una profonda depressione, e non le rivolse più la parola. Lei pur non essendo attratta fisicamente da Rèe, ma solo intellettualmente, andò a convivere con lui. La sorella di Nietzsche, Elisabeth, che la odiava profondamente, fu molto felice di apprendere della lite col fratello. Ben pensò anche di ricattarla. Le intimò che mai più avrebbe dovuto cercare Friedrich nella sua vita, altrimenti lei l’avrebbe denunciata alla polizia. Ai tempi, difatti, convivere per una donna nubile, era reato e si rischiava la galera.

Il legame con Rèe, tuttavia, non durò più di due anni e Lou finì per sposare l’orientalista Andreas, che aveva tentato il suicidio dopo il suo rifiuto, ma alla fine l’aveva convinta. Il loro matrimonio non fu consumato. La prima volta della rubacuori Lou Salomè ci fu con il poeta Rilke, giovane ventiduenne, quando lei di anni ne aveva 36. L’esperienza fu così sconvolgente che la ispirò a scrivere il romanzo Erotica, che ebbe un enorme successo in Europa. Tra i due ci fu una lunga e tormentata relazione. Paul Rèe, fu ritrovato suicida in un fiume, Nietzsche morì in manicomio, non certo per colpa di Lou, ma diciamo che il suo cuore innamorato infranto ebbe un suo ruolo. Cosa aveva di tanto speciale questa donna? Probabilmente una mente brillante, rara, che fece innamorare e patire struggimento negli animi di grandi uomini di cultura dalla viva intelligenza.

La casa di Babbo Natale ed altre curiosità

Una credenza piuttosto curiosa riguarda la sede ufficiale di Santa Claus, che abiterebbe in Finlandia, a Rovaniemi, dove si trova anche il suo ufficio postale.
La casa vera, però, quella segreta, è a Korvatunturi. Il nome finlandese significa <montagna-orecchio>, pare, infatti, che la montagna presso la quale è il villaggio, somigli alle orecchie di una lepre. La leggenda vuole che da queste grandi orecchie Babbo Natale ascolti quello che fanno i bambini per decidere se meritano i doni oppure no. Quando ci fu lo scisma tra la chiesa Cattolica e quella Protestante quest’ultimi non desiderarono più festeggiare san Nicola quale esempio di generosità e carità cristiana, troppo legato al cattolicesimo. Fu così che ogni nazione inventò il proprio “Babbo Natale”. Per i francesi fu “Pere Noel”, in Inghilterra “Father Christmas” (sempre dipinto con ramoscelli di agrifoglio, edera e vischio) e la Germania aveva “Weihnachtsmann” (l’uomo del natale). All’epoca in cui i comunisti assunsero il potere in Russia e rifiutarono la chiesa Cattolica vollero avere anch’essi il loro “Babbo Natale” e lo chiamarono “Il Grande Padre del Gelo”.  Invece del consueto abito rosso lo vestirono in blu. Per gli Olandesi fu “Sinterklaas” che a causa di una cattiva pronuncia degli americani divenne “Santa Claus”. Tutte queste figure natalizie si differenziavano fondamentalmente per il colore delle vesti, chi blu, chi nero, chi rosso; gli unici elementi che avevano in comune erano le lunghe barbe bianche e il loro regalare doni. Era una fredda notte d’inverno, fra gli anni 243 e 366 dopo Cristo, quando nell’antica Roma imperiale, amici e parenti si scambiarono le prime “stranae” per festeggiare il “dies natalis”. Da allora l’usanza si è tramandata di generazione in generazione, assumendo valori e motivazioni differenti. Molti sono gli estimatori di Babbo Natale, ma come al solito gli americani per le trovate pubblicitarie e per le stramberie sono ineguagliabili. Tant’è che negli Stati Uniti è addirittura nata un’associazione, la “Institute of Scientific Santacluasism”, che sostiene l’esistenza di Santa Claus e ne ricerca le prove che avvalorano le loro teorie.

Comunque stiano le cose, se non ci fosse lui, Natale non sarebbe Natale…

Chi è l’antenato di Babbo Natale? Thor, Odino o San Nicola di Bari?

Un uomo molto simile a Babbo Natale, è esistito per davvero: san Nicola di Bari. Nato nel IV secolo a Patara, in Turchia, da una ricca famiglia, divenne vescovo di Myra, in Lycia. Quando morì le sue spoglie furono ivi deposte dove restarono fino al 1087, cioè l’anno in cui furono portate a Bari, città di cui divenne santo protettore e dove le reliquie sono tutt’ora conservate.

Negli anni immediatamente successivi alla sua morte, si diffusero tante leggende che lo vedevano protagonista. Una tra le più famose, descritta anche nel “Purgatorio” di Dante è quella delle tre giovanette, molto povere, destinate alla prostituzione poiché il padre, caduto in miseria, non aveva i soldi per “maritarle”.

San Nicola in groppa al suo asinello, intendo ad elargire doni

Nicola, addolorato dal pianto e commosso dalle preghiere del nobiluomo, decise di intervenire lanciando per tre notti di seguito, attraverso una finestra sempre aperta del vecchio castello, tre sacchi di monete che avrebbero costituito la dote delle ragazze. La prima e la seconda notte le cose andarono come stabilito. Eppure, inspiegabilmente, la terza notte san Nicola trovò la finestra sbarrata. Deciso a mantenere comunque fede al suo proposito, il vecchio dalla lunga barba bianca (chi vi ricorda?) si arrampicò sui tetti e gettò il sacchetto di monete attraverso il camino, dov’erano appese le calze ad asciugare, facendo la felicità dell’intera famiglia. Altre versioni raccontano di come Nicola regalasse cibo alle famiglie meno abbienti calandoglielo anonimamente attraverso i camini. Secondo novelle tradizionali, questo santo sarebbe entrato in possesso di un oggetto mistico, il Sacro Graal, che, oltre ad essere responsabile della sua capacità di <produrre in abbondanza da regalare>, fu causa del trafugamento delle sue spoglie per volere di papa GregorioVII. Dunque, stando a questi racconti, il primo portatore di doni della storia è stato San Nicola di Bari. Amato e venerato un po’ in tutta Europa, specie in Belgio e in Olanda, veniva ricordato il 6 dicembre: in groppa ad un asinello bianco oppure a cavallo, andava nella case portando doni ai bimbi buoni. Ad accompagnarlo c’era lo gnomo Peter il Nero, che puniva i bambini cattivi.
Alcune fonti autorevoli fanno risalire le radici del “mitico portatore di strenne” al teutonico Odino e al germanico Thor.

Il Thor cinematografico

Quando gruppi di immigrati olandesi si spostarono in America, fondando Nuova Amsterdam (divenuta poi New York), portarono con sé anche le tradizioni, tra cui Sinter Klass (san Nicola). Il personaggio piacque ben presto anche ai coloni inglesi, che trasformarono il nome in Santa Claus. Nel corso dell’Ottocento egli cambiò mezzo di trasporto, spostandosi con una slitta trainata da otto renne volanti, ognuna con il proprio nome. Fu Clement Clark Moore, nel 1823, con l’opera “A Visit from St. Nicholas” (Una visita da San Nicola) a dargli la configurazione attuale di <vecchio elfo paffuto>.

In origine Babbo Natale era raffigurato con gli abiti verdi, come un elfo

A dare infine una delle ultime pennellate nel creare l’immagine del nostro Babbo Natale fu l’illustratore Thomas Nast che tra il 1862 e il 1886 disegnò una serie di celebri tavole dedicate al personaggio, ormai associato alla festività natalizia. Sono sue creazioni la casa al Polo Nord, la lista dei bambini buoni e cattivi e la fabbrica dei giocattoli dove lavorano gli gnomi aiutanti.

Nel 1931 l’azienda che produceva la Coca Cola decise di utilizzare Santa Claus nella propria pubblicità natalizia. Vestito dei colori della ditta, il rosso e il bianco, venne raffigurato come un simpatico vecchietto panciuto, questa volta di dimensioni naturali, che beveva allegramente la bibita. Pare che il suo disegnatore, lo svedese Haddon Sundblom, si fosse ispirato a un vicino di casa, un tipo allegro e di aspetto particolarmente florido. Questa immagine, divenne la raffigurazione “ufficiale” di Babbo Natale, e nessuno ormai potrebbe figurarselo in modo diverso.

Chi deve governare uno Stato? Risponde Platone

Tra i cittadini chi è destinato a governare uno Stato?

Busto di Platone

Colui che ha passione politica ma non è istruito? No.

Colui che è amato dalla massa ma non ha capacità? No.

Potrei continuare con molte altre questioni, visti i dibattiti politici dei giorni nostri e la presunta incapacità, su campo pratico, di molti uomini al potere che si sono succeduti negli anni, da varie e diverse fazioni politiche. Vado tuttavia direttamente alla risoluzione della questione, trovata da Platone nella Repubblica, dove descrive il suo governo ideale.

Può reggere uno Stato solo chi ha le doti necessarie, colui che lotta per il bene di tutti e al tempo stesso si merita di stare al potere. Come si comprende chi ha l’attitudine al comando? Attraverso gli studi, scanditi da esami di sbarramento, volti a comprendere qual è l’anima dominante di ogni individuo. Per Platone ciascun uomo possiede in se tre anime: la razionale, l’irascibile, la concupiscibile.

Ad ognuna di esse corrisponde una virtù, che contrassegna il carattere degli uomini che la possiedono in forma dominante. In base a questo ogni uomo, dopo la selezione per comprendere le sue attitudini, andrà a far parte di una delle tre classi sociali, che avrà un compito specifico. Esse hanno pari dignità, e ognuno merita rispetto, perché concorre al buon funzionamento dello Stato. Così chi possiede come anima dominante la razionale apparterrà alla classe dei Governanti, avendo quale anima predominante la razionale, la più perfetta. Solo chi sa tanto ha le doti per perseguire la giustizia.

Quanti avranno come anima dominante quella irascibile e quindi come virtù il coraggio, andranno a far parte della classe dei Guerrieri, occorrendo molta forza d’animo svincolata dalla paura, per difendere i confini della Repubblica. Infine coloro che avranno come anima dominante quella concupiscibile, possedendo come virtù dominante la temperanza, ovvero la moderazione, saranno collocati nella classe dei Produttori, ovvero quanti si occupano del sostentamento materiale della società ideale. Perché questi gruppi sociali hanno pari dignità? Perché ognuno si occupa di un compito specifico e se non lo fa bene, causerà la fine dello Stato. Quelli che nascono con l’anima razionale dominante dovranno governare perfettamente lo Stato, senza il quale nessuno potrebbe essere felice, hanno più doveri rispetto agli altri, ma non sanno coltivare la terra, né allevare il bestiame. Se non ci fossero i produttori, abilissimi in questo settore, morirebbero di fame, e non potrebbero più  dedicarsi alla politica. Così se i guerrieri non avessero coraggio e abilità militare, i confini sarebbero invasi da un dominatore straniero che distruggerebbe la Repubblica. Quindi ogni gruppo assolve a compiti specifici, il cui incastro permette il funzionamento ottimale dello Stato. Ma i governanti non devono asservire i produttori, perché senza di loro lo Stato morrebbe allo stesso modo se al potere ci fosse un uomo incapace.

Quando la giustizia sarà infranta? Platone risponde con il Mito dei fili d’oro che è una profezia. “E così favoleggiando, noi diremo loro: voi cittadini siete tutti fratelli, ma il dio che vi ha plasmati, oro mischiò nella genesi di quelli fra voi che hanno attitudine al comando, ed argento mischiò nei difensori e ferro e rame in chi nasce produttore […] Vi è un oracolo che dice che lo Stato morrà quando sia governato da chi ha in sé o ferro o rame”.

Cosa vuol dire? Che la giustizia, che lavora per la felicità di tutti, sarà infranta quando ci sarà lo scambio dei compiti specifici, quando al potere salirà chi romperà il sistema. Cioè quando chi non ha le doti per governare, e lo ha dimostrando non superando le prove, alle quali tutti hanno avuto la possibilità di accesso e nessuno è stato favorito, è così arrogante e violento da prendersi il governo con la forza, non essendo poi capace di farlo funzionare. Ma se avviene lo scambio dei ruoli, anche il governate non sarà capace di far fruttare la terra, perché non è la sua dote primaria. E’ questa la fine dello Stato ideale. Quando qualcuno che non sa fare una cosa si arranca il diritto di farla comunque.

Eraclito di Efeso: perché fu soprannominato l’oscuro?

Eraclito (VI – V sec.a.C) di Efeso (nell’odierna Turchia), il celebre filosofo del Panta Rhei,  “Tutto scorre”, decisamente non era socievole e non aveva un buon carattere.

Fu questo uno dei motivi per cui ricevette il soprannome di “Oscuro”. Difatti, sebbene fosse di famiglia aristocratica, si disinteressò della politica e della vita sociale della sua Polis.

 Non solo. Riteneva talmente tanto elevata la sua filosofia, esposta nel poema Sulla natura, da ritenere degne di accostarvisi solo le divinità. Una volta conclusa l’opera , stando a Diogene Laerzio, la depose nel tempio dedicato ad Artemide, eretto nel bosco, donandola agli dei dell’Olimpo.

Un altro motivo per cui fu soprannominato l’oscuro è che usò un linguaggio difficilissimo per redigere quest’opera. E lo fece apposta. Perché doveva essere letta solo da quanti avevano le doti intellettuali per comprendere quanto vi era scritto. Chi vi sarebbe riuscito? Quelli che lui definiva “Svegli”, ovvero i filosofi, coloro che per approcciarsi al sapere, si affidavano alla ragione. Questa categoria di uomini è l’opposta dei dormienti, ovvero quelli che si affidano ai sensi per conoscere. Tuttavia la sensibilità è ingannatrice, poiché come nel sonno ci fa credere che cose irreali esistano davvero, così ci inganna sulla vera sapienza nel mondo.

Eraclito, alcuni anni fa, in Italia, è tornato alla ribalta della cronaca per essere incluso nel testo di Francesco Gabbani, Occidentalis Karma con il quale ha trionfato a San Remo. Nel motivo del testo il suo aforisma più noto: Panta Rhei, tutto scorre.

Molto bello, se non fosse che in realtà, Eraclito, non elaborò mai questo motto, che invece fu concepito dai suoi discepoli per identificare una metafora, questa volta sua, che ci è arrivata attraverso un frammento: il fiume.

Secondo il filosofo di Efeso non è possibile immergersi per due volte nello stesso fiume, poiché esso perennemente scorre e cambia, e anche gli uomini, con il trascorrere del tempo, mutano. Dunque la verità, l’origine di tutte le cose, è la trasformazione, il divenire.

Per tale motivo secondo Eraclito tutte le cose deriverebbero da quell’elemento naturale che egregiamente identifica la perenne trasformazione: il fuoco.

Letta la sua opera, il re di Persia, Dario, lo invitò a corte, promettendogli gloria ed oro. Eraclito rifiutò, sostenendo che a lui la gloria non interessava. E se ne andò a vivere nei boschi, diventando vegano, cibandosi solo di erbe. Fu per questo che si ammalò di idropisia. Ma questa è un’altra storia…

Immanuel Kant Vs Coronavirus: l’Imperativo Categorico ci salverà?

di Conny Melchiorre

La prima volta che sono entrata in classe, come docente di filosofia, tra me e gli alunni del Quinto c’erano appena 6 anni di differenza. Ora potrei essere la loro mamma. Giovane, sia ben chiaro.

E’ trascorso del tempo, eppure, da allora, ogni volta che entro per la prima volta in un’aula, la mia lezione è sempre la stessa: “Che cos’è la filosofia? A cosa serve oggi”?

E siccome, stando al buon Aristotele, la filosofia nasce dalla meraviglia e si nutre di domande, il pensiero di noi addetti ai lavori della ragione, non si arresta mai.

Capita di riflettere in situazioni odierne, anche drammatiche, su come la filosofia possa essere d’aiuto al mondo.

Il coronavirus ha generato una pandemia. Si diffonde velocemente, colpisce numerose persone ed è presente in tante nazioni.

E’ una pandemia come lo sono state la Peste, il Colera, l’Influenza Spagnola.

Un vaccino ancora non è stato messo appunto, in forma definitiva. Ma abbiamo dei mezzi per contrastare il contagio: indossare le mascherine, disinfettare spesso le mani e mantenere il distanziamento sociale.

Ed è citando queste regole, che sento Immanuel Kant, filosofo del Criticismo che, mi sussurra: Imperativo Categorico, Imperativo Categorico.

Ecco, la nuova ondata, visto che siamo a conoscenza di come evitare il contagio, fa appello a una scelta di fondo degli esseri umani, di cui il pensatore parla in una delle sue più celebri opere La critica della Ragion Pratica (1788).

L’uomo può scegliere come agire tra due opzioni. L’Imperativo ipotetico (Fa questo se…) tipico della legalità e l’Imperativo categorico (“Fa questo”) tipico della moralità.

Ogni azione può essere comandata nell’una e nell’altra forma.

“Non rubare se non vuoi finire in prigione”. Questo è un esempio di imperativo ipotetico. Io non rubo non perché è un’azione spregevole e perché la legge morale mi dice di non farlo, ma non rubo per il secondo fine, ovvero per non andare in galera.

Quest’azione esteriormente è legale, ed io non posso essere incriminato. Avrei voluto rubare nel mio cuore ma, esteriormente, non ho infranto la legge. Certo, non si è imputabili legalmente, ma condannabili moralmente. Io infatti non ho rubato, non per il puro rispetto della legge, ma perché avevo paura della punizione.

A scuola ci sono delle regole ben precise, negli uffici pubblici anche. E’ nella vita privata che le regole si potrebbero infrangere.

Se nell’esperienza del coronavirus vincesse l’Imperativo Categorico di Kant l’avremmo già debellato, perché tutti indosseremmo  la mascherina, ci laveremmo spesso le mani  e terremmo il distanziamento. Invece nei luoghi dove siamo costretti, molti seguono l’imperativo Ipotetico. Mettono la mascherina altrimenti sono sanzionati. Ma dove non c’è il controllo, mancando la sanzione, manca il seguire la regola. Ed è lì che avviene il contagio. Nei luoghi considerati sicuri, a casa, propria e di amici, alle feste private etc. C’è poi chi se ne infischia e non segue le regole neppure dove sarebbe costretto, appellandosi alla non esistenza del problema o alla libertà del volere.

Ma fino a dove può spingersi la libertà di un individuo? E’ una delle prime regole dell’antropologia: fino a dove non si lede la libertà altrui. E in questo caso è il diritto alla salute. Perché se uno indossa la mascherina, non vuole ammalarsi per colpa di un pinco pallino che inneggia alla violazione della sua indipendenza.

Se invece tutti fossimo educati, non certo in un mese, ma nel corso di anni, all’Imperativo Categorico di Kant, cioè che un’azione va fatta, punto e basta, faremmo ciò che è da fare, spinti da un impeto interiore al giusto.

Solo allora, raggiungeremmo il Sommo Bene kantiano nel suo aspetto più concreto. Ovvero il coronamento della felicità grazie alla pratica della virtù.

In questo caso la virtù è rappresentata dalle regole di prevenzione del contagio. Indi se mettessimo la mascherina anche dove non siamo controllati, non ci ammaleremmo, non contageremmo nessuno e daremmo vita ad un mondo che finalmente si libererà da questa pandemia, come si è sbarazzato dai passati flagelli dell’umanità.

FICHTE, SCHELLING ED HEGEL: AMICI O NEMICI?

L’Idealismo è la filosofia del Romanticismo e spiega la manifestazione dell’Assoluto, ovvero l’insieme di Intelletto e Immaginazione.

Fichte

A seconda del luogo dove si rivela lo Spirito, concetto che  niente ha a che vedere con il paranormale, il sentimentale o il religioso, abbiamo tre orientamenti di pensiero fondati da altrettanti filosofi.

Fichte, il più anziano dei tre, crea l’Idealismo Etico, dove l’Assoluto si pone nel soggetto. Schelling, il più geniale visto che viene ammesso all’università a soli 15 anni (battendo anche Kant che vi entrò a 16), sostiene che l’Assoluto si manifesta nella natura, intesa come infinito essere animato. Egli fonda l’Idealismo Estetico giacché attribuisce all’arte un valore fondamentale.

Hegel, il più famoso tra i tre, ma anche il più dotato di autostima, ritiene che lo Spirito, grazie alla sua filosofia, abbia accelerato il suo processo di manifestazione nella storia, e stia per diventare razionalità assoluta proprio nell’epoca contemporanea.

Hegel

Che rapporto c’era tra i tre?

Fichte era figlio di contadini sassoni, molto poveri, ma la sua bravura fu notata da un ricco possidente locale, che decise di farlo studiare, divenendo il suo precettore. Frequentò l’università a Jena e Lipsia, ottenendo la cattedra di filosofia proprio a Jena, fulcro dei più brillanti intelletti tedeschi. Fu espulso, tuttavia, con l’accusa di ateismo. Nuova gloria ebbe quando gli fu offerta la cattedra di filosofia alla neonata università di Berlino, che sarebbe entrata in competizione per conquistare lo scettro dell’ateneo più ambito.

Hegel e Schelling riconoscono a Fichte il merito di essere il fondatore dell’Idealismo, ma ritengono che abbia commesso degli errori, e ciascuno di loro reputa di essere migliore dell’altro.

Schelling

Il rapporto tra Schelling ed Hegel è molto più particolare perché erano amici.

Frequentavano entrambi il collegio di Tubinga, dove introducevano, di nascosto, i testi dei principali filosofi illuministi, leggendoli di notte.

La struttura era difatti gestita dai gesuiti che bandivano il ruolo centrale della ragione.

Alcuni compagni raccontarono che una notte, Schelling ed Hegel , furono scoperti a ballare, addirittura nudi, intorno ad un albero della libertà, che avevano addobbato per l’occasione.

Esso era un simbolo della Rivoluzione Francese e delle idee repubblicane. Furono severamente puniti.

Se in gioventù il loro rapporto fu di complicità, ben presto, contendendosi le stesse cattedre universitarie e gli stessi studenti, entrarono in conflitto.

L’albero della libertà

Smisero di parlarsi quando Hegel descrisse l’Assoluto di Schelling, come “La notte in cui tutte le vacche sono nere”.

L’ex “ballerino”, non perdonò mai al vecchio amico, di aver accostato il suo pensiero a dei bovini.

E chi non avrebbe fatto lo stesso?